Joe Pulizzi, fondatore del Content Marketing Institute di New York è l’ospite del giorno dell’ormai consueta intervista del venerdì.
Dopo Vincenzo Cosenza (Blogmeter), che ci ha parlato di engagement e social listening, ed Andrzej Marczewski che ci ha ben descritto il fenomeno e la disciplina della Gamification, l’argomento di oggi è un elemento ben più consolidato nelle dinamiche del marketing digitale, ma che vede davanti a sé ancora lunghi lustri di attività, specie in un periodo in cui ciascun impresa e ciascun soggetto sulla rete non potrebbe non considerarsi una media factory.
Per citare un solo dato, il Content Marketing Institute (CMI) dichiara che nel Regno Unito l’88% delle aziende investe in content marketing.
Il CMI ha predisposto, per chiarezza, un framework che ben descrive tutte le fasi e le componenti di cui si compone un’attività di content marketing ben strutturata.
Nel dettaglio:
1) Plan: è facilmente intuibile che la prima fase sia di pianificazione. Può chiaramente variare sulla base della condotta pregressa. Parliamo in ogni caso di una strategia “on going”, che quindi dovrà essere sempre implementata in maniera modificabile e adattabile ad eventuali novità promosse o indotte dall’ambiente. Secondo il CMI questa prima fase consiste, sostanzialmente, nell’autodefinizione da parte dell’impresa che va a valutare sé stessa prima di iniziare ad operare.
2) Audience: nella seconda fase, ancora ampiamente di analisi, l’impresa comincia a valutare chi possano essere gli interlocutori a cui intende rivolgersi.
“L’unico modo per mantenere successo di lungo termine è intrattenere le persone”.
3) Story: in questa terza fase, una volta stabilita la propria identità e quella degli interlocutori a cui si intende parlare, occorre identificare il genere di storia che si vuole raccontare.
4) Channel: strettamente connessa alla fase 2, prevede la creazione di un Channel Plan, all’interno del quale vanno definiti i tipi di canali sui quali si intende veicolare le proprie storie.
Ogni canale va selezionato coerentemente i vari tipi di audience che si intende coinvolgere, andando a selezionare non solo i canali sui quali si intende lanciare le prime pubblicazioni, ma anche i potenziali futuri.
Per ciascun canale vanno stabiliti degli obiettivi da raggiungere e, alla stregua di un piano editoriale, vanno fissati anche gli investimenti che si intende introdurre in ciascuno di questi.
5) Process: è solo in questa fase che la strategia diventa operativa. In questa fase il piano diventa azione e occorre stabilire i processi attraverso i cui tutto viene attuato.
Il CMI dettaglia quattro step che consistono rispettivamente in: creazione e gestione del contenuto; ottimizzazione e cura; conversazione ed ascolto; misurazione e valutazioni finali.
6) Conversation: Your content is now a conversation.
È esattamente questo l’approccio da tenere bene a mente. Una volta pubblicata una storia bisogna disporsi nell’ottica di chi ha aperto una discussione pubblica, per la quale possono giungere complimenti, reclami o domande.
L’ascolto è una delle peculiarità maggiormente ignorate, che però può rappresentare quello che in gergo viene definito un “goal” per l’impresa, che dalla capacità di ascolto, ma soprattutto di risposta celere e coerente, può ricavare elementi altamente produttivi.
7) Measurement: elemento finale del framework e punto saliente di qualunque strategia di marketing, specie digitale, che si vada ad applicare è la misurazione dei risultati. Esistono innumerevoli metriche derivabili dai dati che la rete fornisce, ma per ogni caso specifico vanno stabilite quali possano risultare probanti, salvo poi valutare anche l’ideazione di nuove che possano rispondere ad esigenze particolari.
Dopo aver dettagliato tutte le specificità di cui l’istituto si serve andiamo ad approfondire alcuni aspetti con Joe Pulizzi.
Mr. Pulizzi, come crede che il content marketing evolverà nei prossimi anni?
Stiamo assistendo ad una correzione del mercato sui media a pagamento, ragion per cui il content marketing si sta evolvendo ora più di prima. Eravamo in sovrannumero sui media a pagamento ed ora stiamo cercando di riversare i nostri investimenti sui media di proprietà.
Credo che questo stato di cose perdurerà per ancora un bel po’ di tempo. È solo l’inizio.
Tutto questo, inevitabilmente, significherà che gli uffici marketing cominceranno a vedere, sentire, e diventare sempre più un’identità editoriale.
Esistono imprese che si rendono protagoniste di best practices di questo nuovo paradigma?
Sicuramente. Kraft Foods negli USA ha creato Looking Glass, una sorta di centrale operativa per ascoltare e monitorare costantemente i canali social, e i comportamenti degli utenti, il proprio sito web e i contenuti che stanno avendo migliori performance. Le aziende intelligenti stanno impegnando sempre più giornalisti e soggetti che hanno “fiuto per la storia”, capaci di recepire temi rilevanti e di raccontare storie, brevettando un sistema coerente d’impresa in grado di garantire continuità.
Al contrario, esistono esempi di bad practices, diffuse e da scongiurare per chi opera nell’ambiente del content marketing?
Molti brand spesso ritengono di essere essi stessi gli interlocutori dei propri contenuti. Questo è uno dei più grandi errori che si possa fare.
Nella selezione dei temi rilevanti di cui mi parlava, possono i Social Media essere un utile strumento di rilevazione o la strategia dei contenuti è dettata sempre a priori?
I social rappresentano un enorme luogo d’ascolto per selezionare gli argomenti rilevanti, ma non sono l’unico. Lo sono anche i clienti, i dipendenti, le ricerche. Ciascuno ha il suo ruolo. La capacità di un’impresa intelligente è quella di saper ascoltare più luoghi, per orientare le proprie strategie.
Riferendoci alla sfera Social, come si comporta il content marketing nei confronti dei febbrili mutamenti che coinvolgono gli algoritmi di selezione dei contenuti e quindi i criteri che ne vanno a determinare le gerarchie?
Credo che il miglior consiglio sia sempre quello di concentrarsi sul pubblico di base. Bisogna individuare e continuare a fornire contenuti che possano incidere sulla vita, sul proprio, sugli interessi del nostro pubblico di base. Se un marketer opera su una base costante, riduce di motivi di preoccupazione nei confronti dei mutamenti dei sistemi social.
Facebook, ad esempio, sta diventando sempre più un luogo di gioco per gli utenti. Costruire un pubblico unicamente su queste piattaforme rischia di non avere l’impatto sperato.
In conclusione, dunque, crede che il social listening possa supportare le strategie di content marketing, o viceversa?
Ritengo che debbano sostenersi a vicenda. Non devono essere separati in alcun modo, ma nella maggior parte delle organizzazioni, lo sono.
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Michele Tesoro-Tess ci parla di: Reputation e Social Listening
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